Il mediatore familiare: per far si che il carcere non divida
Articolo di Francesca Romana Moretti – Intervista a Giuseppe De Fazio per Periodico Proposte UILS – N° 1 – Gennaio 2023
Il lavoro di chi accompagna le famiglie nei momenti più difficili, perché non è solo questione di burocrazia.
Avvocati, giudici, agenti della penitenziaria. Il mondo carcerario è pieno di figure professionali che seguono la vita e le vicende di chi è rinchiuso.
Intervistando il Dottor Giuseppe De Fazio ho scoperto quella del mediatore familiare, che dentro e fuori dagli istituti penitenziari si occupa di dare una mano alle famiglie che affrontano momenti delicati.
In cosa consiste il lavoro di mediatore familiare, dentro e fuori le carceri? Cosa cambia?
Il compito del mediatore familiare è creare un percorso che aiuti a preservare le relazioni familiari in mezzo ai conflitti, penso ad esempio prima di separazione e divorzio.
È un percorso che serve a programmare la vita futura post rottura, questo sia dentro che fuori gli istituti penitenziari.
Nel mondo carcerario i cambiamenti principali del mio lavoro riguardano le tempistiche. Ad esempio può succedere che mi contatti un educatore che si occupa della persona detenuta, dopodiché si contatta l’altro coniuge e il percorso comincia con incontri separati. Le tempistiche si allungano perché molto dipende dal regime detentivo del detenuto.
Il lavoro si fa più complesso in presenza di figli, perché va regolarizzata la possibilità del detenuto di vedere i figli, cosa che non è semplice.
La parte culminante del lavoro è quella in cui i due coniugi si incontrano, ma non è sempre immediato.
Che percorso professionale ha fatto lei e perché è arrivato a questa professione?
Sono laureato in scienze e tecniche psicologiche, ho una qualifica di educatore, dal 2009 mi occupo di carcere e sono arrivato a questa nuova attività grazie a un collega che già se ne occupava. Mi sono incuriosito e mi sono mosso verso questa professione, arrivandoci nel 2021 dopo aver seguito un master di mediazione familiare.
Ad oggi, mi occupo di mediazione sia dentro che fuori dal carcere, ed è un lavoro che mi dà soddisfazione perché mi permette di aiutare gli altri.
La grande gioia di questo mestiere è poter dare una mano a chi vive un periodo burrascoso.
Il lavoro nelle carceri è svolto in modo autonomo o è supportato da qualche associazione?
Sono vice presidente dell’associazione “ANAS PensiamocInsieme Milano APS”, con la quale, parallelamente alla mia professione, ci occupiamo di sostegno alla genitorialità.
Nella casa circondariale di Monza, all’interno della ludoteca, sosteniamo un progetto che si chiama “Genitori Pensiamoci Insieme”, dove attraverso il gioco lavoriamo sulla genitorialità per i genitori in carcere.
Adesso, col periodo natalizio, ci stiamo occupando anche di consegna di doni per i bimbi figli di genitori detenuti.
Il lavoro sulle festività, non solo quelle natalizie, è importante per favorire l’unione familiare, per tenere insieme le famiglie tra dentro e fuori le carceri.
Lo stesso abbiamo fatto in ICAM, dove abbiamo portato doni ai bimbi reclusi con le mamme..
Come nasce l’associazione?
Dopo un cambiamento lavorativo personale, che mi aveva temporaneamente fermato, continuavo a essere richiesto dalle carceri ma non avevo modo di operare da solo.
Così, dopo averci riflettuto, ho deciso insieme ad altri di fondare una associazione ex novo che si occupasse di volontariato in questi campi.
Non siamo soli, attorno a noi ci sono moltissime realtà che ci aiutano e danno una mano per realizzare la nostra attività, anche da un punto di vista economico.
La cosa più difficile, all’inizio, è stata trovarle un nome, ma sicuramente “Pensiamoci Insieme” era il più azzeccato.
Dopotutto era quanto stavamo facendo, pensare insieme per realizzare qualcosa.
Pensare insieme è il primo passo per risolvere un problema.
È una professione a cui si dà il giusto valore o che dovrebbe essere valorizzata di più?
Dovrebbe sicuramente essere valorizzata di più, soprattutto fatta conoscere di più, se uno pensa alla separazione pensa solo all’avvocato.
Il mediatore familiare è una figura diversa il cui scopo è affievolire i conflitti, non avere ragione, cercando di mantenere stabilità per i membri della famiglia anche dopo la fine del rapporto di coppia.
Vorrei fosse una professione conosciuta meglio, proprio per l’utilità che ha per l’animo di chi vive la separazione, bambini compresi
Lavorate anche con il carcere minorile?
Al momento no. Ci fu l’inizio di un progetto di sportello d’ascolto per i ragazzi che però, per colpa anche del COVID, si è fermato lì. Vedremo per il futuro, il nostro lavoro è in crescita e vogliamo essere presenti al 100% dove operiamo.
Quali sono gli ostacoli più grandi che incontra nel suo lavoro?
Nel campo della mediazione familiare, sarò sincero, ostacoli ce ne sono davvero pochi, si cerca di dare sempre una mano.
Il rischio unico è quello delle attese lunge al momento degli incontri, ma nel lavoro in carcere è una costante a cui ci si abitua.
Chiaramente tutto dipende dalle singole realtà e dalle singole persone, ma ostacoli veri e propri non ce ne so.
Forse può essere più difficile l’attività di volontariato, perché il volontario è una figura in più nei vari contesti lavorativi e questo non sempre si concilia facilmente con il lavoro del professionista.
Cosa chiederebbe alle istituzioni?
Di guardare la realtà detentiva con un’ottica diversa, rendendosi conto che si hanno davanti persone che non miglioreranno in un mondo che gli è ostile.
Le situazioni difficili non aiutano a migliorare, se non si lavora sulla rieducazione non si fa del bene.
C’è bisogno di dare prospettive ai detenuti, prima dentro alle carceri e poi nel percorso verso il rientro in società.
Bisognerebbe dare davvero attuazione all’idea di rieducazione e reinserimento sociale del detenuto, altrimenti il valore del carcere si perde completamente.
Creare realtà che possano essere davvero d’aiuto a queste persone, uscire dalla mera idea di punizione, lavorare sulle opportunità per chi ha sbagliato e sta pagando.
Ogni incontro con i professionisti del mondo carcerario è un passo in più per conoscere quelle vite che ci sembrano così lontane e che sono invece a un passo da noi. La figura del mediatore familiare, che non conoscevo, esce dalla classica idea di carcere come pena per entrare nell’intimo delle relazioni umane, ricordando che prima delle vittime o dei colpevoli davanti a noi abbiamo delle persone, con affetti, problemi, bisogni e necessità.
Fare qualcosa per aiutare, demolendo i pregiudizi, è portare del bene all’intera comunità sociale.